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FRANCESCHIN: lotte operaie, Statuto, Carta dei diritti

Le lotte operaie per le tutele e la libertà sindacale: dallo Statuto dei lavoratori alla Carta dei diritti

Giovedì 4 novembre 2021, a Bari, nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’UniBa, si è tenuto il seminario dal titolo “Le lotte operaie per le tutele e la libertà sindacale: dallo Statuto dei lavoratori alla Carta dei diritti” promosso dalla Fondazione Rita Maierotti e dalla Cgil Puglia.

Nel 2020 si sono celebrati i 50 anni dello Statuto dei Lavoratori, a distanza di mezzo secolo, in un mercato del lavoro radicalmente modificatosi nel tempo, la Cgil ha proposto un nuovo statuto, la Carta dei diritti, a tutela delle forme nuove e atipiche di lavoro, con diritti fondamentali in capo alle persone a prescindere dalle forme contrattuali.

Intervento di Davide Franceschin, segretario nazionale NIdiL CGIL

Per un torinese, figlio del “fabbricone” venire a parlare del consiglio di fabbrica qui, francamente, è una cosa positiva, interessante, e infatti ero curioso. Perché, appunto, sono cresciuto a Torino e ho iniziato la mia esperienza sindacale attraverso un’elezione del consiglio di fabbrica. Sono entrato in fabbrica nell’88: 22 anni in un’azienda chimica. Mi sono candidato – non so se è stato detto ma le modalità con cui si veniva eletti erano su scheda bianca e non per lista di organizzazione. Venivi riconosciuto a seconda della tua professionalità: c’erano i carrellisti, c’erano i processisti, il confezionamento, gli impiegati eccetera.

La mia parabola di sindacalista forse riflette anche l’evoluzione del mondo del lavoro: sono partito dal consiglio di fabbrica e adesso mi occupo di precari, di somministrazione, al NIdiL. Ho iniziato a fare le prime manifestazioni contro le agenzie di somministrazione (interinali) quando erano state aperte, ricordo che a Torino andai a manifestare contro la prima agenzia Adecco che apriva, e adesso mi tocca contrattare il Contratto Collettivo Nazionale della Somministrazione.

Quindi, come dire, anche il mio approccio e la mia esperienza sindacale riflettono come è cambiato il mondo del lavoro. Però, riflettendo su questo e sulle ricostruzioni storiche e le bellissime testimonianze che sono state fatte questa mattina, se ripenso a come era fatta l’azienda in cui lavoravo immagino che l’esperienza del consiglio di fabbrica oggi sarebbe impensabile.

Quando ho iniziato a lavorare lì dentro – come tutti i lavoratori di quel sito – avevo un unico Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro applicato. C’erano in più solo i contratti di formazione, un po’ di apprendisti e ogni tanto qualche contatto a termine, ma pochi. Si andava dalle mense alla guardiania, alla manutenzione, ai carrellisti, al confezionamento: tutto era interno. Il datore di lavoro era molto identificabile, 600 persone c’erano. Sono rientrato per fare un’assemblea 5 anni fa, dunque: la guardiania è stata data all’esterno, la manutenzione è stata data all’esterno, i carrellisti sono della Logistica, le mense sono del Commercio, la parte informatica è stata data a professionisti, c’è una parte di lavoratori che è in somministrazione. Insomma, quel ciclo produttivo è stato completamente scomposto e se io dovessi rifare il consiglio di fabbrica oggi rappresenterei 200 persone su 600.

Quindi, il problema che ci si pone oggi non è solo sulle tipologie contrattuali. L’obiettivo della CGIL è quello di riunificare un lavoro scomposto, ma se noi andiamo a vedere “come” si è scomposto non possiamo prenderla esclusivamente dalla parte delle tipologie contrattuali, perché è solo una parte della scomposizione. C’è, poi, un altro tipo di scomposizione che è sulla filiera, sulla catena del valore.

Devo dire che la forza di quegli anni è stata il fatto che c’era che un riconoscimento tra uguali, tra operai, e da quel riconoscimento si è passati alle rivendicazioni sul posto di lavoro e poi si è usciti dalla fabbrica. Ci sono state tantissime rivendicazioni sui diritti civili, sui diritti sociali. A Torino si parlava anche di “emergenza casa”, tra l’altro il movimento sulla casa era fatto dagli immigrati meridionali che venivano a Torino e non trovavano la casa.

Sono andato a rivedere, così, nel ciclo di lotte ‘68-‘78 cosa è successo sui diritti civili e sociali da un punto di vista legislativo, oltre allo Statuto del Lavoratori: ‘71 tempo pieno, superamento classi speciali; ‘74 referendum sul divorzio; ‘75 riforma del diritto di famiglia; dal ’71 al ‘73 tutela delle lavoratrici madri e lavoro a domicilio; ‘78 legalizzazione dell’aborto; ‘78 Legge Basaglia sulla salute mentale; ‘78 istituzione Servizio Sanitario Nazionale. L’altro giorno al Senato hanno bocciato il DDL Zan…

In quel periodo il movimento dei lavoratori era fortissimo, quando si parla di sviluppo civile e sociale, è il movimento dei lavoratori che l’ha conquistato. Poi – è vero – alleandosi anche con fette della società, ma se non ci fosse stato quello, se non fosse partito dai luoghi di lavoro, se non fosse partito da quell’unità dei Lavoratori, sarebbe stato difficile raggiungere le conquiste sociali che adesso sono di nuovo messe in discussione.

E questa questione della nostra debolezza è determinata, a mio avviso, dalle modalità in cui è organizzato il lavoro, perché la solitudine lavoratori determina corporativismo e scelte individuali per trovare una soluzione. Quindi, se noi non ripensiamo a “come rimettere insieme” e al fatto che i lavoratori si riconoscano l’uno con l’altro e non si facciano la guerra (perché questo oggi accade, c’è competizione) possiamo fare qualsiasi legge straordinaria sulla rappresentanza, qualsiasi proposta su una diversa modalità del lavoro, ma io penso – purtroppo – che anche i rapporti di forza, soprattutto i rapporti di forza, contino nella modifica delle norme. E se non ricostruiamo e ripartiamo da lì io penso che facciamo un errore storico.

Noi, come NIdiL, abbiamo un perimetro di rappresentanza che oggettivamente descrive la plasticità della frantumazione del mondo del lavoro: rappresentiamo i disoccupati, i disoccupati sono tante cose. Se vengo a parlare qui a Bari i disoccupati sono una cosa, se vado a Trento sono un’altra cosa. Sono andato a Trento l’altro giorno, lì il problema dei disoccupati è proprio diverso. In Calabria credo che sia ancora diverso. Ci sono molte situazioni in cui i disoccupati sono lavoratori in transizione, che tra un lavoro e l’altro hanno un periodo disoccupazione e ci sono situazioni in cui sono disoccupati perché proprio non c’è lavoro. Qui va ripensato anche, forse, un modello un po’ più keynesiano di quello attuale, in cui anche lo Stato si faccia datore di lavoro di ultima istanza. Rappresentiamo gli autonomi, cioè i professionisti individuali (che sono un mondo); gli autonomi occasionali, quelli in ritenuta d’acconto, che – attenzione – non sono tutti professionalità bassissime, c’è molta gente che lavora così, magari facendo traduzioni, sono laureati.

Quindi, la precarietà non è necessariamente di basso profilo professionale, spesso è anche di alto profilo professionale perché l’organizzazione delle imprese ha bisogno di tutti i ruoli – poi dipende dalla grandezza dell’impresa – ma più sono piccole e meno è difficile avere una continuità lavorativa (spesso, almeno questo è il mio osservatorio). Poi ci sono i co.co.co., i collaboratori sportivi e abbiamo i tirocinanti: anche qua, uno scandalo, altro che Statuto dei lavoratori. Non c’è contribuzione, non viene considerato nemmeno lavoro. Probabilmente gli extracurricolari dovrebbero essere cancellati dalla faccia della terra, magari sarebbe più corretto creare percorsi sull’apprendistato.

E poi ci sono i somministrati che sono gli unici, in questa pletora, ad avere un profilo contrattuale e che sono subordinati, quindi – paradossalmente – anche su di loro si applica la legge 300, lo Statuto. Ma se io ho rapporti di lavoro di un giorno, 3 giorni, 7 giorni, gli applico lo Statuto per un giorno, 3 giorni, 7 giorni e poi è finita. Quindi, io credo che, appunto, il nostro profilo è quello di essere un pochino – lo diciamo spesso tra noi – “cerniera” in questo mondo e tentare di farli rientrare in un perimetro di diritti e tutele, per unificare, facendo contrattazione inclusiva ecc.

Volevo portare qualche esperienza che abbiamo fatto, anche perché credo che dall’esperienza, dalla lettura dell’esperienza, si possano capire molte cose – qualcuno diceva di fare un’inchiesta: si, sarei proprio d’accordo di fare un’inchiesta perché con l’inchiesta anche i tuoi parametri magari si modificano, sapendo quello che pensano e quali sono le priorità dei lavoratori. Perché se io chiedo a un precario “Tu cosa vorresti da un Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro?” lui ti dice “io vorrei continuare a lavorare”. Se tu chiedi a uno che è a tempo indeterminato ti dirà “un aumento salariale”. 

Noi abbiamo fatto qualche esperienza interessante, la prima: Amazon. Inutile che io spieghi cos’è. In Italia ha circa 10mila dipendenti diretti, quindi a tempo indeterminato. Ha 12mila lavoratori in somministrazione, a termine, di tre mesi. In continuo: li assume, arrivano a un anno, li lascia a casa e ricomincia. E poi ha tutta la pletora dei driver che sono quelli che portano a casa il pacchettino che tutti noi compriamo. L’intuizione che abbiamo avuto, noi e la Filt, è stata quella di fare una vertenza insieme e la Filt ha fatto una vertenza non solo con i dipendenti, ma anche con tutti i driver che, tra l’altro, sono la forza più organizzata e se tu gli inchiodi i driver è inutile che fai i pacchi, perché non li porti. È un po’ come le bisarche per la Fiat di una volta, facevi le macchine ma se non c’erano i trasportatori che le portavano… Siamo riusciti così a fare un accordo. Adesso è un accordo quadro, poi vedremo cosa butta, però è il primo al mondo. Amazon è un’azienda che non riconosce da nessuna parte il sindacato. Non so se avete letto cosa succede negli Stati Uniti, in Germania continuano a scioperare… Tutto questo perché riconosce la legge, è perfetta, riconosce il minimo contrattuale, ma non riconosce il potere contrattuale collettivo, cioè ha solamente il rapporto individuale con quel lavoratore. Il primo accordo al mondo che è stato fatto, è stato fatto in Italia, tanto è vero che qualche giorno fa UNI ci ha contattati per chiedere “spiegateci come avete fatto”. Questo risultato è figlio di un’intuizione politica e sindacale, abbiamo messo insieme tutta la filiera, tutti. In un’azienda così, in cui c’è questa frantumazione, o facevi in questo modo, su tutta la filiera, oppure per noi come rappresentanza dei somministrati nel mondo Amazon, fare attività sindacale era praticamente impossibile. Li prendiamo quando li buttano fuori, gli controlliamo la busta paga e gli facciamo sostegno al reddito, perché un lavoratore che è a tre mesi, più tre mesi, più tre mesi – si – ha il diritto di assemblea, ha il diritto a iscriversi a un sindacato, ha tutti i diritti, ma è ricattabile alla fonte. Quindi, anche qui, se non ripensiamo alla questione del mercato del lavoro, a ricomporre il mercato del lavoro, anche per via legislativa e non interveniamo su questo, noi possiamo anche immaginare delle altre forme di rappresentanza, ma se non diamo delle tutele lì, qualsiasi forma di rappresentanza salterà in aria. Quindi, per questo credo che ci sia un intreccio tra tutto. 

L’altra esperienza interessante sono stati i rider, sono ancora i rider. Una parte siamo riusciti a farli diventare subordinati, anche per scelta d’impresa devo dire. Quindi ora hanno diritto di assemblea, hanno diritto di malattia, hanno diritto alle ferie, al TFR, a tutto quanto. La stragrande maggioranza dei rider però non è in questa situazione, molti sono ancora occasionali o in partita iva. Anche qui c’è una composizione strana del lavoro. A Sud sono italiani che pensano di farsi un lavoro a tempo pieno con uno stipendio. A Nord sono sostanzialmente studenti e, spesso, immigrati: che non parlano italiano, che hanno problemi di permesso di soggiorno, quindi sono clandestini. Sono clandestini perché in alcune delle imprese se io dico “sono Davide Franceschin, sono un tuo dipendente”, loro non sanno chi sono, devo dargli l’email. Cioè mi riconoscono dall’email, per dire qual è il rapporto di lavoro. Io sono un’email, quindi chissà chi è che lavora. Quel perimetro si è rivolto a noi sostanzialmente autorganizzandosi, poi fortunatamente alcuni hanno scelto la CGIL come interlocutore. Ci sono anche situazioni in cui noi siamo riusciti a sindacalizzarli direttamente, ma il grosso si è sindacalizzato da solo sulla base di come eludere la piattaforma, all’inizio magari si davano i consigli per riuscire a fare percorsi migliori ecc

Io, nella mia esperienza sindacale, non sarei stato in grado di fare una cosa del genere perché sono ancora legato a quell’esperienza che dicevo all’inizio. Loro si sono autorganizzati e si sono rivolti a noi, hanno i loro rappresentanti, ma non sono riconosciuti dalle Aziende, tranne che in Justeat dove sono subordinati. La loro forma di rappresentanza è molto liquida, non la conosciamo bene ancora però si estende abbastanza. Ci sono altri esempi in cui i lavoratori si sono autorganizzati e sono venuti in CGIL. Solitamente è il contrario, siamo noi che rompiamo le scatole per vedere se riescono ad organizzarsi, ma in queste forme di lavoro, la modalità oggettiva di organizzazione e rappresentanza deve tener conto delle loro condizioni oggettive di lavoro, non è riproducibile ad altre forme.

L’ultimo esempio “più standard” è la rappresentanza nella somministrazione, in cui stiamo riuscendo a fare radicamento – abbiamo circa 200 tra RSA e RSU in tutta Italia –. La difficoltà che c’è, anche per loro, per quei rappresentanti, è riuscire a individuare la controparte, hanno un datore di lavoro, che è l’Agenzia, che però non può decidere sulle condizioni di lavoro, sugli orari, sui turni ecc: su questo decide l’Utilizzatore. Anche qui, non c’è legge che tenga, come Organizzazione dobbiamo fare una scelta politica: rimettere insieme tutti quelli che sono nella filiera, ricostruire la rappresentanza, e – a mio avviso – incardinare la contrattazione sull’azienda che dà valore, l’azienda madre. Perché, oggettivamente, un appalto d’impresa vive sull’impresa che appalta.

Chiudo dicendo questo: le forme della rappresentanza rispondono a tante cose, si inseriscono in un contesto politico, sociale, valoriale generale, si inseriscono nelle forme organizzative, sta a noi capire quali sono i cambiamenti, avere chiaro l’obiettivo e modularci su quell’obiettivo.