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“LICENZIATA” PERCHÈ INCINTA. Corte d’Appello Trento: è discriminazione

La Corte d'Appello di Trento sancisce la natura discriminatoria dell'interruzione di missione di una lavoratrice somministrata in gravidanza.

In una recente causa promossa da Fiom, NIdiL e CGIL del Trentino, la Corte d’Appello di Trento ha dato ragione a una lavoratrice con un contratto di somministrazione dichiarando discriminatoria la decisione dell’azienda di espellerla dal lavoro perché in stato di gravidanza.

Non si tratta del primo caso di discriminazioni per maternità nei confronti di lavoratrici precarie e a rischio di emarginazione lavorativa che vengono denunciate dal sindacato anche in sede giudiziale. Tre anni fa il Tribunale di Roma ha accertato, in una causa promossa da NIdiL contro l’Aifa (Agenzia Italiana del farmaco), la discriminazione di una lavoratrice in gravidanza, assente da poche settimane dal lavoro per astensione obbligatoria, che non aveva visto più rinnovata la sua missione, unica fra tutti i suoi 44 colleghi impiegati in somministrazione.

Il caso trattato dalla Corte di Appello di Trento riguarda, invece, una lavoratrice assunta a tempo indeterminato dall’agenzia per il lavoro Manpower e assegnata in missione a tempo indeterminato presso la multinazionale Dana Italia Srl di Trento. Nel settembre 2021 la lavoratrice trasmetteva il certificato di gravidanza a rischio e, giusto un mese dopo, riceveva la comunicazione da parte dell’agenzia della cessazione della missione presso l’azienda utilizzatrice a seguito del recesso dal contratto di staff leasing da parte di quest’ultima. La lavoratrice, pertanto, tornava a disposizione dell’agenzia che, non potendola assegnare ad altra attività lavorativa proprio a causa della gravidanza, le erogava solo l’indennità di disponibilità, un importo mensile pari a meno di un terzo dello stipendio che la lavoratrice avrebbe percepito se il diritto alla maternità le fosse stato garantito.

A fronte di tali condotte palesemente discriminatorie da parte dell’azienda, la lavoratrice, sostenuta dalle categorie Fiom, NIdiL e dalla CGIL del Trentino, ha prima richiesto di essere riammessa in servizio e poi, a fronte del respingimento di tale richiesta da parte della società, si è rivolta al Tribunale di merito per vedere riconosciuto il proprio diritto a proseguire la missione sino al compimento del primo anno di età del figlio presso l’azienda. Il giudice del lavoro di Rovereto ha, in prima istanza, respinto il ricorso; tuttavia, la Corte di Appello di Trento, in riforma della sentenza di primo grado del Tribunale, ha dedotto l’esistenza di una discriminazione diretta a causa dello stato di gravidanza della lavoratrice e dichiarato illegittima l’interruzione della missione da parte dell’azienda utilizzatrice, annullando l’atto di recesso con le conseguenze risarcitorie patrimoniali e non patrimoniali. 

DISCRIMINAZIONE DIRETTA (CONTRO LE DONNE)

Nella sentenza, in ordine alla qualificazione della discriminazione, i giudici inquadrano il comportamento dell’azienda come una discriminazione diretta. È opportuno ricordare che l’ordinamento (d.lgs. n. 198/2006, Codice delle Pari Opportunità) distingue tra discriminazioni dirette e discriminazioni indirette, le prime consistenti in disposizioni, criteri, prassi, atti, patti e comportamenti esplicitamente pregiudizievoli per la/il lavoratrice/lavoratore in ragione del genere e che, comunque, determinino un trattamento meno favorevole rispetto a quello di un altro lavoratore; le seconde, consistenti in disposizioni, criteri, prassi, atti, patti e comportamenti che seppur neutri, pongono la/il lavoratrice/lavoratore in una situazione di particolare svantaggio. Peraltro, dalla qualificazione discendono conseguenze giuridiche in merito alla giustificabilità della condotta, che è preclusa in caso di discriminazione diretta. Dunque, la discriminazione diretta è caratterizzata dall’intenzione esplicita di discriminare in ragione di un fattore c.d. di rischio. Nel caso affrontato sussiste il fattore di rischio determinato dallo stato di gravidanza della lavoratrice comprovato dal certificato medico; e vi sono anche gli elementi sintomatici dai quali dedurre l’esistenza di una discriminazione diretta a causa dello stato di gravidanza. La caratteristica che più caratterizza il rito antidiscriminatorio consiste nello spostamento dell’onere della prova dal ricorrente/discriminato al resistente/discriminante. L’azienda ha sostenuto che la decisione di interrompere la missione era “conseguenza di una ristrutturazione aziendale”, motivazione che non si evince dalla documentazione rilasciata. Inoltre, nello stesso periodo l’interruzione della missione ha riguardato anche un‘altra lavoratrice in somministrazione in gravidanza. La Corte d’Appello di Trento ha accertato che il comportamento di Dana è derivato da una discriminazione verso le donne: tra circa un migliaio di lavoratori, stabili e precari, le uniche due persone estromesse da Dana in quel periodo erano state proprio quelle due donne, evidentemente “colpevoli” di aspettare un figlio.

Il criterio di scelta per l’individuazione della lavoratrice da estromettere dall’organizzazione produttiva è stata invece, come richiamato nella sentenza, la condizione personale della dipendente, cioè lo speciale fattore di rischio di cui ella era portatrice a differenza di tutti gli altri lavoratori dipendenti o in somministrazione. 

VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DELLA PARITÀ DI TRATTAMENTO

Stante il riconoscimento della discriminatorietà della condotta, il Tribunale si è poi pronunciato sull’accertamento della violazione del principio di parità di trattamento e delle sue conseguenze. Il recesso ha infatti determinato un danno patrimoniale per la lavoratrice che ha percepito l’indennità di disponibilità in luogo della retribuzione che le sarebbe spettata qualora la missione non fosse stata interrotta. A tal proposito è interessante notare che in merito alla quantificazione del danno patrimoniale i giudici della Corte di Appello richiamino la disposizione dell’art. 15 del CCNL delle agenzie che garantisce la piena parificazione al trattamento previsto dalla contrattazione collettiva dell’utilizzatore anche nelle ipotesi in cui l’astensione prosegua oltre il termine della missione, con conseguente integrazione dell’indennità di maternità, fino al riconoscimento alla retribuzione piena fino all’anno di età del bambino. A fronte della condotta discriminatoria lesiva della dignità della lavoratrice e della sua professionalità nonché come persona i giudici hanno, inoltre, riconosciuto anche il risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 28, dlgs. 150/2011; la Corte ha attribuito una connotazione dissuasiva al risarcimento del danno, riconoscendo in via equitativa una somma alla lavoratrice come rimedio per la discriminazione subita. 

STAFF LEASING E DIRITTO UE

Le motivazioni della sentenza sono importanti  sotto diversi profili: la qualificazione della discriminazione, le modalità con cui la Corte di Appello ha ritenuto provata la discriminazione, l’accertamento della violazione del principio di parità di trattamento e infine la valenza dissuasiva del risarcimento riconosciuto. Inoltre, la pronuncia offre l’occasione di accendere ancora una volta i riflettori sull’istituto della somministrazione a tempo indeterminato (staff leasing), oggetto nei mesi recenti di due ordinanze con cui i Tribunali di Reggio Emilia e Milano hanno rimesso al giudizio della Corte di Giustizia Europea la stessa compatibilità con il diritto U.E., in particolare relativamente alla necessità del suo carattere temporaneo.

Occorre, infatti, in via preliminare evidenziare come la modalità di lavoro in staff leasing non possa qualificarsi come stabile. Il lavoratore assegnato ad una missione a tempo indeterminato è privo – nonostante le norme del contratto collettivo nazionale di lavoro delle agenzie di somministrazione prevedano una serie di tutele in merito alle procedure di riqualificazione e ricollocazione – di garanzie di continuità della prestazione. Con detta tipologia contrattuale, infatti, il lavoratore percepisce nei periodi di mancato invio in missione l’indennità di disponibilità, ma non gode di meccanismi di tutela sotto il profilo della durata della missione stessa. A differenza del rapporto di lavoro del lavoratore assunto direttamente dall’utilizzatore che può cessare per iniziativa della società utilizzatrice solo a fronte di un provvedimento di recesso debitamente e ritualmente motivato, le disposizioni normative applicabili alla somministrazione non prevedono alcun obbligo di motivazione nella ipotesi di cessazione anticipata delle missioni presso l’utilizzatore. Questo assetto normativo che non prevede limiti temporali alla missione e non impone alcun obbligo di motivazione del provvedimento di cessazione della missione stessa né in capo alla agenzia di lavoro interinale né in capo al soggetto imprenditoriale utilizzatore rischia di legittimare un sistema di licenziabilità ad nutum del lavoratore somministrato. Circostanza, questa, che sottopone i lavoratori ad un massimo rischio di essere vittime di condotte discriminatorie, come nel caso in oggetto della lavoratrice in gravidanza) e conseguentemente ad un altissimo grado di ricattabilità e subalternità.

A cura di

Francesco D’Alessandro

NIdiL CGIL Nazionale